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Sanità, post-infarto: i significativi risultati di uno studio internazionale coordinato dalla Cardiologia di Rimini

(Sesto Potere) – Rimini – 13 settembre 2025 – Aprire una significativa riflessione sull’impiego dei beta-bloccanti nella cura post-infarto. E’ quanto deriva dai risultati dello studio REBOOT (condotto congiuntamente in Spagna e Italia), illustrati nell’ultimo Congresso della Società Europea di Cardiologia (European Society of Cardiology), svoltosi a fine agosto a Madrid davanti ad oltre 8000 delegati provenienti da tutto il mondo.

Questo trial clinico internazionale era finalizzato a valutare l’utilizzo della terapia cronica orale a base di beta-bloccanti nei pazienti reduci da un infarto miocardico acuto (IMA) sottoposti a rivascolarizzazione percutanea con angioplastica (PCI), in particolare un potenziale beneficio di questi farmaci sulla sopravvivenza a lungo termine, assenza di recidive infartuali e/o nuovi episodi di scompenso cardiaco rispetto al gruppo di controllo.

Lo studio ha inequivocabilmente documentato che la somministrazione routinaria prolungata dei beta-bloccanti per via orale, ‘quoad vitam’ come consigliato fino ad oggi da molte linee guida internazionali, incluse quelle dell’ESC, non ha più ragione di essere applicata nei pazienti con IMA trattato con PCI in presenza di una funzione cardiaca di pompa conservata, ovvero con una frazione di eiezione superiore al 50%, accerta con l’ecocardiografia pre-dimissione in tutti i pazienti”, spiega il dottor Filippo Ottani, Direttore della Cardiologia di Rimini dell’AUSL della Romagna e coordinatore della parte italiana dello studio insieme al dottor Roberto Latini dell’istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano), oltre che coautore della pubblicazione apparsa sul New England Journal of Medicine, riconosciuta come la rivista medica più prestigiosa a livello mondiale.

L’indicazione, fino ad oggi valida – aggiunge il dottor Ottani – nasceva da studi clinici condotti tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, in cui spiccava l’assenza di rivascolarizzazione sistematica dei vasi coronarici stenotici e/o occlusi e delle più moderne terapie mediche di protezione del miocardio ischemico e/o preventive dello scompenso cardiaco e della morte improvvisa”.

Oltre 8500 pazienti seguiti per 4 anni di follow-up

Lo studio REBOOT (condotto insieme ai cardiologi spagnoli coordinati dal Prof. Borja Ibanez del Centro Nacional de Investigaciones Cardiovascolares di Madrid) ha sanato la carenza di dati aggiornati in pazienti trattati con terapie “state-of-the-art”, arruolando 8600 pazienti con IMA trattati con PCI e randomizzati a terapia beta-bloccante (circa 4300 pazienti) o braccio di controllo (circa 4300 pazienti). I pazienti, una parte dei quali curati nelle Cardiologie dell’AUSL della Romagna, sono stati seguiti per 4 anni di follow-up, al cui termine il tasso di eventi avversi (tra cui la morte per tutte le cause) è risultato sovrapponibile tra i due gruppi, rendendo così possibile “alleggerire” la terapia domiciliare dei pazienti infartuati.

Tuttavia i beta-bloccanti non vanno “in pensione”, almeno non del tutto – fa notare il dottor Latini – L’indicazione alla sospensione di tali farmaci vale se il cuore esce dall’episodio acuto di attacco cardiaco con una funzione ventricolare normale. Se la frazione di eiezione risulta inferiore al 40% dopo l’IMA, i beta-bloccanti rimangono farmaci “salva-vita” e restano un presidio “quoad vitam” imprescindibile”.

Studio pubblicato anche sul New England Journal of Medicine

Lo studio REBOOT ha anche contribuito a chiarire un altro aspetto dubbio dell’applicazione della terapia beta-bloccante nel post-infarto. Infatti, pazienti che “escono” dall’IMA con una moderata disfunzione ventricolare (frazione di eiezione tra il 41 e 49%) tendono ad assomigliare ai pazienti con disfunzione ventricolare severa (frazione di eiezione inferiore al 40%) e quindi beneficiano anch’essi della terapia beta-bloccante, che non va quindi eliminata dall’armamentario terapeutico. Un risultato evidenziato con la presentazione della meta-analisi apparsa su Lancet, di cui è sempre co-autore il dottor Ottani, che ha “mescolato” i dati relativi ai pazienti con lieve disfunzione ventricolare arruolati nei trial REBOOT, BETAMI-DANBLOCK e CAPITAL-MI.

Grilli: “Dimostrazione della capacità di fare ricerca di alta qualità dei professionisti della Ausl Romagna”

“In conclusione questo studio dimostra l’importanza della ricerca non soltanto per trovare nuove modalità terapeutiche – sottolinea il dottor Roberto Grilli, Direttore della UO di Ricerca Valutativa dell’AUSL della Romagna – ma anche per comprendere come utilizzare meglio gli strumenti terapeutici che già sono disponibili, delineando in questo specifico caso una modalità di cura del post-infarto più “personalizzata”, che evita l’uso di farmaci (e quindi anche dei loro potenziali effetti collaterali) nelle tipologie di pazienti in cui si sono rivelati non utili. A latere questo studio rappresenta anche un’ulteriore dimostrazione della capacità di fare ricerca di alta qualità dei professionisti della AUSL della Romagna, anche attraverso la partecipazione attiva a network di ricerca di internazionali”.

“Quello che valeva ieri, oggi può essere revisionato sulla base di solidi criteri emersi dalla ricerca confermando quanto sia importante unire gli sforzi di ricerca tra aziende sanitarie a livello nazionale e, quando questo non è sufficiente poiché sono richiesti “grandi numeri”, quanto sia essenziale attivare network internazionali – conclude il dottor Ottani – come accaduto con lo studio REBOOT, che verosimilmente proseguirà le sue attività anche nel prossimo futuro”.